COMITATO VOCI VERE VITTIME DELLA BASSA MODENESE
Commissione d' inchiesta Regione Emilia Romagna (Audizione del 08/10/2019 )

Relazione N.2 Nicoletta Berni - Componente Comitato VOCI VERE
Una vicenda personale
Sono tre anni che mi chiedo perché non lo lasciano in pace. Parlo di mio figlio, il ragazzo definito il “bambino 0” nella inchiesta dei giornalisti Trincia e Rafanelli, un’inchiesta e un libro, da poco uscito in libreria, che hanno la pretesa di raccontare la verità sulle vicende di pedofilia della bassa modenese avvenute vent’anni fa.
Di quale verità parliamo? La verità, l’unica, è quella raccontata da mio figlio e confermata in tutti i gradi di giudizio e da una richiesta di revisione dei processi rigettata dalla Corte. La verità è un’infanzia negata a mio figlio, un’infanzia vissuta nel terrore, nel dolore, nella sofferenza più profonda, nel segreto, nella vergogna, nei sensi di colpa ….
Ha cominciato a raccontare, a 7 anni, di quello che succedeva quando, ancora in affido alla nostra famiglia, rientrava a casa nel fine settimana. Si rannicchiava nel cestone della biancheria sporca e raccontava con dolore, con la paura, con la preoccupazione di non essere creduto e di non essere più voluto per come si presentava ai nostri occhi. Io ho raccolto le sue testimonianze, tante volte incredula, non conoscevo i luoghi, le persone e le circostanze che raccontava, ma soprattutto non conoscevo il mondo dei pedofili, un mondo che si muove vicino a noi, fatto di persone che vivono, lavorano, hanno famiglia, persone povere e ricche, ignoranti e colte che hanno in comune una caratteristica: rubare la vita ai bambini. Sì, perché vivere per mio figlio è sempre stato difficile.
Dopo le rivelazioni la sua vita è stata scandita da sedute di psicoterapia, perizie e processi, ma di tutto ciò ha parlato Trincia nella sua inchiesta tralasciando, volutamente, di raccontare il vissuto dei bambini e delle famiglie che li hanno accolti. A 8 anni mio figlio si chiedeva perché mai i suoi genitori l’avessero messo al mondo visto tutto il male che gli avevano fatto. Affermava, sporgendosi dalla finestra dello studio della psicologa all’ultimo piano di un palazzo, che se moriva non avrebbe più pensato a quello che gli avevano fatto. Lo accompagnavo in seduta e lo raccoglievo, da sotto la scrivania della psicologa, in preda al vomito e alla paura dopo il racconto dei ricordi. Tutto era difficile e complicato, andare a scuola, giocare con i compagni, le feste di compleanno, il Natale, le gite scolastiche, le visite mediche, tutto quello che per gli altri era normale routine, per lui corrispondeva ad ansia e ricordi dolorosi. Si metteva sempre in pericolo e si faceva spesso del male, non aveva un briciolo di autostima. Per anni non ha dormito la notte in preda ad incubi spaventosi da non riuscire a muoversi dal letto e chiedere di essere consolato.
Prima del processo, nonostante tutte le strategie messe in atto per proteggerlo, è stato rintracciato e minacciato da persone coinvolte nella vicenda pedofili. Lui era terrorizzato, mio marito ed io impotenti di fronte a tanto accanimento al punto che, pensando di non riuscire a tutelarlo e salvarlo, con un dolore immenso, abbiamo chiesto alle sorelle del Cenacolo Francescano di accoglierlo nella loro struttura per un po' di tempo, così come lo avevano accolto da piccolo.
Ci siamo ricongiunti e trasferiti in altra regione con la convinzione che era la cosa giusta da fare per ricominciare a vivere e non accontentarci di sopravvivere. Abbiamo lasciato la nostra casa, il mio lavoro, gli affetti più cari e le relazioni più importanti. La nostra decisione ha coinvolto ovviamente i nostri primi due figli all’epoca preadolescenti. A loro è stato chiesto di cambiare scuola per l’ennesima volta, di lasciare gli amici, i compagni, di allontanarsi dai loro amatissimi nonni. Non si sono mai opposti, né hanno fatto rivalse nei confronti del fratello più piccolo, ma ancora oggi penso che questa vicenda li ha profondamente segnati e provo un senso di colpa per aver chiesto a loro tanti sacrifici.
Negli anni seguenti mio figlio, che abbiamo potuto adottare all’età di 16 anni, stante il prolungarsi dei procedimenti penali, è stato più volte rintracciato e contattato da persone a lui note ma che non abbiamo mai potuto identificare. Al compimento del 18° anno è stato prelevato all’uscita da scuola da alcuni componenti della sua famiglia di origine, la paura per questo ennesimo contatto ha comportato la non ammissibilità all’esame per il conseguimento della qualifica di scuola superiore e successivamente ha dovuto ripetere l’anno scolastico in altra scuola.
La vita di mio figlio, da adolescente prima e da adulto poi, è sempre stata segnata da tanto dolore per l’incapacità di raggiungere gli obiettivi prefissati, dalla difficoltà a mantenere relazioni importanti, a trovare un lavoro, ma soprattutto a rendersi autonomo e capace di affrontare la vita di ogni giorno senza lasciarsi sopraffare dall’angoscia nei momenti di riattivazione del trauma.
Quando tre anni fa si sono presentate alla mia porta due donne che volevano incontrare mio figlio per rivivere con lui, sfogliando un album di fotografie, gli anni della sua prima infanzia, non ho fatto altro che cacciarle nel tentativo di difendere la nostra privacy. Ho scoperto in seguito che una di queste donne era la giornalista Rafanelli che non si è presentata a me in quanto tale e che, a mia insaputa, ha registrato il nostro breve colloquio. Non potevo immaginare che qualche giorno più tardi i giornalisti Trincia e Rafanelli si appostassero nei pressi della mia casa e che, dopo aver pedinato mio figlio, lo bloccassero spingendolo contro una recinzione nel tentativo di farsi rilasciare una dichiarazione, registrando pure lui a sua insaputa. Mio figlio si è sentito di nuovo braccato e minacciato, lui non è una persona aggressiva, né violenta ma dopo questo episodio abbiamo scoperto che la sera, quando usciva, portava con sé un coltello per difendersi da eventuali aggressioni. Una notte, in altra città, durante un normale controllo delle forze dell’ordine, è stato rinvenuto il coltello dentro il suo zaino ed ora dovrà rispondere penalmente per questo. Nei due anni successivi ha combattuto con il trauma che riaffiorava nel tentativo di fingere che quella brutta storia non fosse vera e che a lui non fosse successo niente.
La situazione è peggiorata dopo la pubblicazione dell’inchiesta “Veleno” e purtroppo, lo scorso novembre, dopo aver letto e strappato la pagina di giornale che pubblicava l’ultima puntata dell’inchiesta a ricordo dei 20 anni trascorsi da quei tragici avvenimenti, mio figlio è definitivamente crollato. A Natale 2018 è stato ricoverato al Diagnosi e cura in preda ad un delirio di onnipotenza, con pensieri pericolosi per se’, conseguenti ai suoi vissuti traumatici e per un uso prolungato di sostanze stupefacenti. All’infermiera che lo assisteva insieme a me in attesa del ricovero ha dichiarato “…… mi chiamano il bambino 0 ma invece io sono il numero 1 ……”
Oggi mio figlio si sta lentamente e faticosamente riprendendo, a breve compirà 29 anni, cerca un lavoro, è un giardiniere ed essendo ricoverato in struttura ha già perso diverse opportunità lavorative.
Ovviamente questa parte della storia che con non poca sofferenza ho raccontato, non interessa a Trincia che ha scritto di storie inventate, ridicolizzando i racconti dei ragazzi coinvolti, descrivendoli come persone superficiali e non attendibili ed omettendo volutamente di trascrivere gran parte delle loro dichiarazioni, rilasciate al giornalista stesso, che confermavano quanto accaduto in passato.
Con quale diritto un giornalista come Trincia si è appropriato della storia di mio figlio e degli altri bambini di allora, a quale scopo l’ha riscritta e ottenuto la pubblicazione della sua inchiesta su una importante testata giornalistica come Repubblica ed ora, la casa editrice Einaudi pubblica il suo libro intitolato “Veleno – Una storia vera”? Raccontando la sua storia Trincia ha dato visibilità e credito a persone che sono state condannate per reati gravissimi a carico di mio figlio, persone che tuttavia nel corso degli anni hanno proclamato la loro innocenza in numerose interviste, in programmi televisivi, sponsorizzati con interpellanze parlamentari. Mio figlio, gli altri ragazzi e le famiglie che li hanno accolti non hanno mai rilasciato interviste, non sono andati in televisione, non hanno chiesto risarcimenti né tantomeno favoritismi. In silenzio e tanta solitudine abbiamo atteso giustizia, in alcuni casi ci ha appagati in altri purtroppo no, ma il nostro atteggiamento non è cambiato.
Mio figlio, gli altri ragazzi, le famiglie che li anno accolti, le persone che li hanno curati e che li hanno sostenuti non hanno nessuna responsabilità in questa vicenda, se non quella di aver rivelato e denunciato “una storia vera”.